LA TRAGEDIA ENDOGONIDIA DELLA
SOCÌETAS RAFFAELLO SANZIO
Maria Cristina Reggio (Estratto dal saggio pubblicato in Drammaturgie sonore, Bulzoni editore, 2013)
Maria Cristina Reggio (Estratto dal saggio pubblicato in Drammaturgie sonore, Bulzoni editore, 2013)
La Tragedia Endogonidia è
un ciclo drammatico realizzato dalla compagnia Socìetas Raffaello Sanzio in un periodo di tempo compreso tra l’inizio del 2002 e il
2004, che riuniva in una sola opera undici spettacoli, realizzati in
successione e denominati Episodi, ciascuno dei quali ha avuto
origine e luogo in una diversa città europea. La Socìetas è una compagnia teatrale che si è costituita nel 1981 dall’incontro tra
Romeo Castellucci (1960), Chiara Guidi (1960) e Claudia Castellucci (1958) e ha
base a Cesena, in Emilia Romagna, dove lavora, dal 1992, presso il Teatro
Comandini. A partire da Voyage au bout de la nuit (1999) e
da Il Combattimento (2000) ha avviato una collaborazione con
il compositore statunitense Scott Gibbons, che conferisce una forte presenza
sonora all’impianto scenico mediante l’uso di diverse tecnologie. (Per una
ricognizione generale sul lavoro della Socìetas precedente alla Tragedia
Endogonidia cfr. A. Mango, G. Bartolucci, L. Mango, F. Tiezzi, T.
Colusso, S. Paradiso, S.R.S., Il teatro Iconoclasta,
Edizioni Essegi, Ravenna 1989; C. Castellucci, R. Castellucci, Il
teatro della Socìetas Raffello Sanzio, Ubulibri, Milano 1992; R.
Castellucci, C. Guidi, C. Castellucci, Epopea della polvere, Ubulibri,
Milano 2001; Socìetas Raffaello Sanzio, R. Castellucci, Epitaph,
Ubulibri, Milano 2003).
Ciascuno degli
Episodi è contrassegnato dalla lettera iniziale della città che lo accoglie,
seguita da un numero progressivo. Le città toccate, in ordine di successione,
sono: Cesena, Avignone, Berlino, Bruxelles, Bergen, Parigi, Roma, Strasburgo,
Londra, Marsiglia, e ancora Cesena. Alcuni singoli Episodi hanno dato luogo a
brevi azioni teatrali denominate Crescite, con le quali gli autori
si sono riproposti di ripensare o sviluppare singole figure o aspetti
dell’Episodio stesso. (Per una ricognizione sulla Tragedia Endogonidia,
cfr. C. Castellucci, R. Castellucci, C. Guidi, J. Kelleher, N. Ridout, The
Theatre of the Socìetas Raffaello Sanzio, Routledge, Oxon, U.K. 2007; V.
Valentini, B. Marranca, Universale, il più semplice posto possibile.
Intervista a Romeo Castellucci, in «Biblioteca teatrale», n. 74-76,
aprile-dicembre, Roma 2005, pp. 243-253; E. Pitozzi, A. Sacchi, Itinera,
Actes Sud, 2008).
Attraverso
quest’opera complessa i suoi autori hanno voluto mettere alla prova il sistema
della rappresentazione teatrale come luogo nel quale ripensare la tragedia,
ipotizzando un teatro che fosse ancora portatore di un nuovo significato
definibile come tragico, proprio nell’epoca contemporanea in cui si è presa
distanza da una concezione del mondo fondata sul mito, sul destino e sulla
colpa. La sfida consisteva nel concepire una rappresentazione “autogenerante”–
endogonidia, appunto – ovvero che non derivasse da un testo classico o comunque
già scritto, ma che traesse la propria “tragicità” dagli spazi e dai luoghi
contemporanei che attraversava, restituendo agli spettatori la possibilità di
comprendere, attraverso il meccanismo della finzione teatrale, la violenza
presente nella loro stessa realtà.
Il nucleo
tematico centrale della Tragedia Endogonidia consiste nella
tragicità insita nell’esperienza umana del linguaggio. Così come aveva
evidenziato W. Benjamin nei suoi studi sul teatro barocco e sul teatro antico,
la tragedia attica era il luogo nel quale per la prima volta la prospettiva
dell’essere umano di risolvere i conflitti mediante la parola si mostrava
portatrice di un doppio significato: da un lato era fondamento di una nuova
comunità che si liberava dal volere degli dei, dall’altro era il segno di una
dolorosa insolvibile scissione tra l’individuo-eroe, la sua vita e quella
stessa comunità (Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco
tedesco, Einaudi, Torino
1999 (Ursprung des deutschen Trauerspiel, Suhrkamp Verlag, Frankfurt and Main 1974). Nel teatro
antico, infatti, l’agire dell’eroe era contraddistinto da una scissione che si
traduceva in un caparbio “tacere” che lo annientava e lo costringeva nella
solitudine e nel silenzio, lontano dalla comunità che si andava istituendo
proprio attraverso l’atto della parola e del dialogo tragico. Benjamin
sottolineava l’importanza di considerare il tragico come un fenomeno legato
alla realtà storica e sociale della Grecia antica, piuttosto che come un tema
filosofico, tuttavia l’aspetto tragico del linguaggio è anche un
tema che, a partire dal teatro greco e dalla nascita nel medesimo periodo del
pensiero filosofico, ha attraversato tutta la cultura occidentale e che si fa
più urgente nella nostra contemporaneità, caratterizzata dall’estensione e
dalla proliferazione globale dei sistemi di comunicazione: fin dal teatro
greco, come ci fa notare oggi Agamben, il linguaggio umano, «l’esperienza cioè,
dell’uomo in quanto è, insieme, vivente e parlante, un essere
naturale e un essere logico, era apparsa […] necessariamente scissa in un
conflitto insanabile».
La tragicità del linguaggio è un tema già
presente nelle precedenti esperienze teatrali della Socìetas, ma assume,
nella Tragedia Endogonidia, una centralità e una radicalità tali da
configurarsi come il nucleo originario di una ipotetica nuova rappresentazione
del futuro: al silenzio e al sacrificio dell’eroe tragico corrispondono un
nuovo silenzio e un annientamento che toccano, principalmente, gli spettatori a
cui si rivolge la rappresentazione (Si pensi all’invenzione di una nuova
lingua, la Generalissima in cui si concentri tutto il
dicibile, in Kaput Necropolis, (1984), al Giulio Cesare (1997)
in cui il discorso di Antonio è detto da un laringectomizzato, alla riduzione
in partitura sonora del Voyage au bout de la nuit di
Cèline,(1999), a Combattimento (2000) con le voci che
cantavano i madrigali di Monteverdi erano variate da Scott Gibbons in
contrappunto con il respiro di un cavallo morente).
Negli Undici Episodi si manifesta una
tensione dialettica e oppositiva senza soluzione che investe in particolare il
registro sonoro di quest’opera e che essa sia finalizzata a disporre gli
spettatori in una situazione di ascolto che definiamo tragico. Il
significato del termine tragico a cui ci riferiamo qui,
consiste secondo l’accezione attribuitagli da Peter Szondi, in «una determinata
maniera in cui l’annientamento minaccia di compiersi o si compie, e cioè quella
dialettica»:
dialettica che produce, in questo caso, un collasso dell’emissione dei suoni o
della voci e, simmetricamente, dell’atto di ascoltarli. La nostra
ipotesi è che nella drammaturgia sonora della Tragedia Endogonidia agiscano,
sia a livello tematico che a livello compositivo, alcuni poli oppositivi e che
ciascuno di essi corrisponda a differenti facoltà dell’ascolto dello spettatore
che, nel corso della rappresentazione, vengono spinte verso una tensione che
non si risolve mai verso un polo o verso l’altro.
Si tratta del conflitto tra silenzio e voce, tra paradosso e senso del discorso, tra organico e inorganico:
Si tratta del conflitto tra silenzio e voce, tra paradosso e senso del discorso, tra organico e inorganico:
- Il
conflitto tra il silenzio e la voce fa
riferimento alla dimensione indiziale dell’ascolto, nella
quale un evento sonoro può fornire a chi lo ascolta informazioni
riguardo alla sua sorgente. Nel suo saggio sull’audiovisione nel
cinema, Michel Chion organizza il rapporto tra i suoni e la loro percezione
secondo tre diverse tipologie di “disposizioni all’ ascolto”, che interagiscono
nella ricezione del registro sonoro di un qualsiasi evento : ascolto indiziale,
causale o semantico e ascolto ridotto. (Cfr. M. Chion, L’audiovisione.
Suono e immagine nel cinema, Lindau, Milano 2001, pp. 33-40; Ed.
orig. L’audio-vision. Son et image au cinéma, Editions
Nathan, Paris 1990).
Nella Tragedia Endogonidia,
come vedremo, si assiste a una variazione dell’udibilità e della
percettibilità delle voci umane rispetto al polo estremo che è il silenzio, in
modo tale che quest’ultimo si configura non solo come un vuoto o
semplice assenza di suono, ma soprattutto come il prodursi di gesto di
annientamento dell’atto di parola. Il silenzio che qui intendiamo diventa una
specifica categoria, uno sfondo, uno spazio sonoro, come lo ha
definito Murray Shafer, caratterizzato da proprietà materiche, su cui emergono,
per poi sempre soccombere o sparire come fossero inghiottiti e comportandosi
come autentici personaggi, i diversi eventi sonori vocali.
Secondo la definizione di R. Murray Schafer, studioso canadese che si è
occupato dei rapporti tra suono, rumore e ambiente, un “evento sonoro” (sound
effect) è la più piccola particella autonoma di suono, che accade in un
determinato intervallo di tempo di un “paesaggio sonoro” (sound scape).
Quest’ultimo è definito come un ambiente di suoni, un qualsiasi campo acustico:
quindi sia evento sonoro che spazio o paesaggio sonoro sono eventi uditi e
costruiti dalla nostra percezione. (Cfr. R. Murray Schafer, Il
paesaggio sonoro (ed orig. The Tuning of the World, Alfred
A. Knopf, Inc., New York 1977), Le Sfere Ricordi, San Giuliano Milanese 1998,
pp. 13-25).
- L’opposizione
tra paradosso e senso comune o senso
del discorso, mette in discussione la dimensione semantica dell’ascolto,
che riguarda cioè il senso di ciò che si ascolta. «Il tragico si rapporta al
demonico come il paradosso all’enigma. In tutti i paradossi della tragedia […]
l’ambiguità, lo stigma dei demoni, va estinguendosi»: cosi scriveva Benjamin,
sottolineando, nella tragedia greca, la forza eversiva del paradosso come
procedura di “rovesciamento del significato” che spezza la logica del destino
umano già deciso dagli dèi. Il paradosso si declina come strategia di una
variazione del discorso verso tutti i sensi possibili, figura di un divenire che
determina capovolgimenti e slittamenti il cui modello letterario nella
modernità è, secondo Deleuze, Alice nel paese delle meraviglie di
Carroll. Vedremo, in particolare, come questa logica del ribaltamento agisca
nella Tragedia Endogonidia in diverse forme: come strategia di
spiazzamento della voce rispetto al senso delle parole, come variazione della
sincronizzazione tra il suono e la sua fonte, come dislocazione, infine, dei
punti di ascolto.
- La
dialettica tra organico e inorganico vede opporsi suoni
continui prodotti dalle macchine a suoni discreti e distinti che, invece
appartengono ai corpi viventi. I paesaggi sonori delle città contemporanee sono
dominati da commistioni e da variazioni continue di suoni che rimandano a
sorgenti organiche e inorganiche e che risultano spesso indistinguibili gli uni
dagli altri, come nel caso delle voci tecnologicamente riprodotte, dei suoni
elettroacustici di sintesi o, più semplicemente, dei suoni generati dai motori.
Per distinguere questi suoni è necessario porre attenzione alle caratteristiche
proprie dei singoli eventi sonori, ovvero al loro timbro, alla loro tessitura e
alla loro vibrazione, sviluppando una forma di ascolto che lo studioso del
suono Pierre Shaeffer ha proposto di denominare ascolto ridotto.
«Pierre Schaeffer, ha battezzato “ascolto
ridotto” l’ascolto rivolto alle qualità e alle forme proprie del suono,
indipendentemente dalla sua causa e dal suo senso; e che considera il suono
come oggetto di osservazione, invece di attraversarlo mirando ad altro (
l’aggettivo «ridotto» è tratto dalla nozione fenomenologica di riduzione di
Husserl)». (Cfr. M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema,
cit., p.36).
Rispetto alle altre due disposizioni di
ascolto (quella indiziale e quella semantica), quella dell’ascolto ridotto
rimanda alla dimensione più propriamente percettiva di questa funzione umana, e
consente un’apertura verso il piano affettivo, emozionale ed estetico della
ricezione. Vedremo che nella Tragedia Endogonidia si
riscontrano diverse occorrenze di variazioni dei profili dei suoni sull’asse
della polarità tra organico e inorganico e che esse si caricano di una forza
emozionale che sfocia, in ciascun episodio, nel prodursi di una vera e
propria catarsi nell’ascolto degli spettatori.(...)
Procedimenti compositivi della Tragedia
Endogonidia
a) Scissione,
modulazione assemblaggio delle sonorità organiche
I procedimenti
adottati da Scott Gibbons nella Tragedia Endogonidia, hanno
consistito nel captare, molecolarizzare, modulare e articolare le diverse
materie sonore secondo una logica di scissione e parcellizzazione degli
elementi. Nel corso dei laboratori preliminari di preparazione dello
spettacolo, lui e Chiara Guidi hanno costruito, utilizzando come sorgente la
voce di quest’ultima, un archivio di sonorità da cui, successivamente, hanno
tratto la maggior parte degli eventi sonori degli Episodi. Hanno infatti
modificato, ridistribuendone le componenti in emotive, la voce di Chiara che
cantava la sua partitura del Canto del Capro negli
spazi-laboratorio del teatro Comandini di Cesena: l’hanno registrata,
moltiplicata, amplificata e scomposta in elementi minimi e Gibbons l’ha
ulteriormente modulata mediante un sintetizzatore analogico. Per il suo lavoro
di modifica del suono, il compositore ha utilizzato soprattutto la sintesi
granulare, un procedimento che opera su minuscoli grani
sonori – particelle di suono della durata di 5-50 millisecondi – che
consiste nel modificarli applicando a ciascuno diversi parametri spettrali, (Lo
spettro di un suono tiene conto della sua durata, del suo timbro, della
lunghezza d’onda (da suono acuto a grave) e dell’intensità ( volume)).come la
lunghezza d’onda e la durata, che possono provenire anche da altri campi dati
diversi da quello sonoro. Si tratta di un’operazione attraverso la quale è
possibile ottenere sonorità che non corrispondono a toni o melodie, ma a
“nuvole di suono”, composte da infinite cellule eterogenee diversamente
“connotate”, che fondono, materialmente, dati che provengono dai campi diversi,
quello sonoro così come quelli visivo e cromatico.
È un suono che
penetra come un’onda vibratoria, nelle materie che attraversa, degradandosi
fino a oltrepassare il confine dell’impercettibilità e della riconoscibilità.
Questo suono
viene diffuso in platea mediante sistemi multicanale come il surround
5:1 (Un impianto surround 5:1 è un sistema di diffusione
del suono che ha lo scopo di collocare l’ascoltatore al centro della scena
sonora mediante una disposizione di 5 altoparlanti che lo circondano e che
portano differenti canali sonori: due canali frontali sinistro e destro, un
canale frontale, due posteriori sinistro e destro. Gli effetti di bassa
frequenza sono contenuti in un ulteriore canale speciale detto subwoofer), in
modo tale che gli spettatori si trovano immersi in un ascolto che
configura per ogni Episodio, un diverso spazio acustico o “paesaggio sonoro”.
Sono spazi acustici le cui sonorità hanno caratteristiche materiche e
cromatiche: ad esempio gli Episodi di Avignone, Berlino, Bruxelles, Roma e
Londra hanno spazi visivi dominati da tonalità bianche e nebulose, cui
corrisponde un gassoso “rumore bianco”, mentre a Parigi, Marsiglia e Strasburgo
l’ambiente visivo della scena ha una dominante nera e buia, che si connota di
sonorità liquide, come un pozzo o una caverna attraversata da tracce di
sonorità acquatiche.
Gibbons utilizza
anche la tecnica del sampling, ovvero innesta sul “fondo sonoro”
campioni prelevati da altri contesti sonori, come ad esempio nell’incubo della
madre in B.#03 BERLIN, in cui si distinguono, ulteriormente
rielaborati, alcuni frammenti del film sperimentale Alone-Life
Waste Andy Hardy (1998) in
cui il regista austriaco Martin Arnauld ha decostruito le tracce sonore di
alcune scene della popolare serie tv americana, enfatizzandone ironicamente il
ritmo “orgasmico” ripetitivo, balbuziente e sincopato. (Prodotta
dalla MGM, la saga di Andy Hardy e
della sua famiglia ebbe inizio con il film A Family Affair (1937)
e durò vent’anni, fino al 1958. Il nome del personaggio ( interpretato da
Mickey Rooney) compariva nei titoli di quasi tutti i film, a indicare la
centralità del personaggio, rappresentante - tipo del cittadino medio americano
e della sua famiglia. M. Arnold ne ha tratto un corto di
15 minuti in cui la ripetizione compulsiva e ironica di alcuni frammenti devia
verso il perturbante la ricezione di un film altrimenti classico, ispirato alla
“medietà” dell’American way of live. . Si tratta di un esempio
di found footage film, ovvero un film realizzato con spezzoni
prelevati da film preesistenti che vengono riassemblati in un nuovo contesto
che ne modifica radicalmente il senso. Scott Gibbons preleva a sua volta un
campione del film di Arnold e lo immette nel contesto scenico: si tratta della
voce di Judy Garland, che nel film-serie interpretava una giovane
cantante e che viene modificata da Arnold, come scrive Michael Zryd in
direzione di un ritmo ipnotico di forte intensità sessuale : «Betsy/Judy
Garland appears, singing Alone: “Alone on a night that was meant
for love / There must be someone waiting who feels the way I do.” The words“alone”, “love”, and “waiting” are
looped, emphasising their resonance with the desiring Oedipal subject, alone,
loving, and forced to wait for a ‘proper’ object of desire. However, Arnold
emphasises Betsy/Garland’s desire as much as Andy’s: the sheer length of “her”
tableau, as well as its emphasis on voice, so iconically bound to Garland’s image,
marks the richness of her desire». Cfr.
Michael Zryd, Alone: Life Wastes Andy). La voce, prelevata in questo caso da un
contesto esterno, che l’aveva già modificata e “degradata”, subisce un
ulteriore processo di parziale filtraggio che ne modifica il timbro e il senso
fino diventare un suono-fantasma che sembra provenire da una vecchia radio
degli anni Cinquanta.
Nel corso delle
singole rappresentazioni, eventi sonori come i rumori dei movimenti del corpo
degli attori, degli oggetti e delle superfici dello spazio scenico hanno subìto
un analogo trattamento di parcellizzazione: sono stati “captati” mediante
microfoni disposti sul palco oppure dentro gli oggetti stessi e amplificati
così come si presentavano in scena, oppure modulati mediante il sintetizzatore
e dislocati in tutto lo spazio del teatro, dal palco alla platea, fin sotto i
sedili degli spettatori. I suoni hanno subito pertanto una doppia scissione: da
un lato sono stati separati dalla rispettiva sorgente e dislocati nello spazio
del teatro, dall’altro variati nello spettro, determinandosi così una
situazione di contrappunto rispetto all’evento visivo cui sembravano riferirsi,
come in BR.#04 BRUSSEL, quando il movimento dell’abito della Madre,
amplificato e degradato, corrispondeva dal punto di vista timbrico a un
accartocciamento di tono grave che invadeva la platea.
La dimensione di ascolto creata da Gibbons
è modellizzata sui sistemi di trattamento e diffusione del suono del cinema e
della televisione ma, per certi versi, ne costituisce una sorta di percorso
all’inverso: infatti qui le sonorità, che promanano dalle diverse materie non
mirano ad accentuare il grado di riconoscibilità dei singoli suoni, ma a
produrre l’effetto contrario. La resa del sonoro mediato dalla tecnologia, come
ci spiega Chion, è finalizzata, nel cinema, a proiettare lo spettatore in una
realtà sempre più “verosimile”e verso un suo contatto più immediato con
un’immagine della realtà di cui le «nostre esperienze sensoriali sono gomitoli
di sensazioni agglomerate» (M. Chion, L’audiovisione.
Suono e immagine nel cinema, cit., p. 104).
Sembra qui che l’operazione di Gibbons miri proprio a rendere complicare e mettere in vibrazione la sensazione, piuttosto che dipanarla: il suo procedimento non mira a descrivere o esprimere la voce che proviene dal corpo o i suoni che provengono dalle materie, ma a decostruire questi suoni dentro i corpi e le materie da cui provengono e a creare una dimensione di contrappunto del registro sonoro rispetto a quello visivo, con esiti che portano al configurarsi di una vera e propria drammaturgia sonora.
b) Modulazione
della forze che abitano le materie
Ma quali sono le forze che abitano in
profondità, nella materia e su cui si riorganizzano le sonorità della Tragedia
Endogonidia? Deleuze e Guattari, che hanno ripensato, nei
loro Millepiani, i processi della creazione artistica, ci dicono
che sono la Durata nel tempo e l’Intensità nello
spazio e che l’arte contemporanea, abbandonando il compito di rappresentare le
forme dei corpi, delle cose e delle materie, si occupa di captarle e renderle
tangibili, udibili e visibili. Secondo i due filosofi infatti, proprio la
musica elettronica mediante le sue specifiche strategie di captazione e
condensazione, «molecolarizza la materia sonora, […] che diviene capace così di
captare forze non sonore, come la Durata e l’Intensità». L’ascolto
dell’articolazione di queste due forze nei processi sonori produce due
dimensioni temporali opposte che corrispondono, secondo Deleuze e Guattari,
alle due nozioni temporali di matrice stoica di Cronos e Aiôn.
Il primo è il tempo pulsato, tempo della territorializzazione e
della presenza marcata dal numero dei passi che l’essere umano compie quando,
camminando, occupa come soggettività un territorio, e che
diventa segnale di misurazione del tempo e dello spazio, affermazione del
tempo presente, mentre Aiôn è la forma infinita e
incorporea del tempo non pulsato, de-territorializzante, il divenire
infinito e illimitato che schiva il presente, un neutro
pre-individuale, il tempo dell’evento. (G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani,
Cooper & Castelvecchi, Roma 2003, p. 479 (ed. orig. Mille Plateaux. Capitalisme
et schizophrénie, Les Editions de Minuit, Paris 1980).
Sui
concetti di tempo pulsato e tempo non pulsato, cfr. il corso a Vicennes 3
maggio1977, sul sito http://www.webdeleuze.com. Inoltre, per approfondire i
rapporti tra la filosofia di Deleuze/Guattari e la musica elettroacustica, Cfr.
R. Paci Dalò e E. Quinz (a cura di), Millesuoni, Deleuze, Guattari e la
musica elettronica, Cronopio, Napoli 2006.
Nella Tragedia Endogonidia si può dire allora che il materiale visivo e sonoro compie un movimento continuo e conflittuale di territorializzazione e deterritorializzazione del tempo e dello spazio che “l’organismo della rappresentazione teatrale” attraversa nel suo percorso di mutazione che comprende infinite morti e rigenerazioni. Le sonorità si alternano in un movimento sismico fluttuante ondulatorio che oscilla tra silenzi cosmici siderali e stati di vibrazione organica, oppure tra scivolamenti verso pulsazioni indefinite, segnalando uno stato di infinita metamorfosi. Puntuali, all’opposto, i frammenti di vocalità, i conflitti tra gli oggetti e le materie e le voragini fragorose che squarciano gli spazi marcano ritmicamente e “affettivamente” una presenza dolorosa, fragile e provvisoria, sempre minacciata dall’annientamento e dall’essere trascinata nel flusso della trasformazione.
c) Captazione
del linguaggio del corpo
Come S.
Gibbons, ha messo in atto un procedimento di “captazione” dei suoni, così anche
Chiara Guidi ha creato un sistema di captazione, molecolarizzazione, e
variazione delle forze sonore che abitano il corpo e per fare questo ha
utilizzato lo strumento della voce. La sua ricerca si è concentrata sull’elaborazione
di un codice attraverso il quale dare voce a una lingua che provenisse
direttamente dal corpo del capro, l’animale da cui la tragedia trae il suo
nome, e che non fosse una semplice trasposizione formale né figurativa o
espressiva. Prima dell’inizio della rappresentazione di A.#02 AVIGNON,
gli spettatori hanno potuto assistere a un video nel quale un capro nero, visto
dall’alto, si muoveva in silenzio su un diagramma ordinato con diverse lettere
disegnate su un fondo bianco, nel rivelando una traccia dell’operazione
attraverso la quale la lingua del capro era stata restituita letteralmente al
corpo dell’animale. Le lettere che componevano il diagramma, come spiegavano
Chiara Guidi e Romeo Castellucci nel programma di sala di A.#02
AVIGNON [24],
erano infatti le iniziali delle sigle delle proteine responsabili delle
funzioni vitali di un capro – della respirazione, della crescita delle corna e
della putrefazione – e quest’ultimo era stato ripreso mentre tracciava, con il
suo pascolare, i collegamenti tra esse, creando, in questo modo, le “sue parole”
da cui Chiara Guidi ha tratto la sua partitura del Canto del Capro[25].
Nel procedimento
inventato da Chiara Guidi le forme delle lettere “scelte” dal capro nel suo
pascolare sul diaframma sono state lette e “cantate” con azioni vocaliche
caricate di valenze emotive diverse, che scaturivano dalla forma stessa di ogni
lettera, le cui linee costitutive venivano considerate come vettori di forze
aventi ciascuno una sua direzione e un’intensità. La partitura cantata dalle
due Ambasciatrici, che abbiamo potuto riascoltare nel Ciclo Filmico negli
Episodi A.#02 AVIGNON e BN.#05 BERGEN è fatta
di poche vocali e molte consonanti, non dice parole che alludono a una lingua
umana conosciuta, ma proviene direttamente dal corpo delle due donne (respiro,
laringe, faringe), sale fino ai sibili acuti che passano attraverso le loro
corde vocali, glottidi e bocche e scende dai loro nasi e cavità orali fino a
rientrare nella basse tonalità cave dei loro diaframmi: il corpo delle due
donne diventa strumento di fonazione per ogni singola lettera e fonema.
È una voce che «[…] lascia intendere» direbbe Roland Barthes «a chi sa
porgervi ascolto, quella che potrebbe dirsi la sua “grana”», ovvero la
materialità, la sua origine corporea, e che offre a chi la ascolta qualcosa che
il discorso costruito con le parole non dice( R.
Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001, p. 78 (ed.
orig. L’obvie et
l’obtus. Essais critiques III, Éditions
du Seuil, Paris 1982) pp. 238-251).
Nel definire la “grana” della voce in
relazione al canto, Barthes ha fatto riferimento alla distinzione operata da
Kristeva tra il feno-testo e geno-testo,
traslandola in feno-canto, il linguaggio che serve alla
comunicazione tra due soggetti e il geno-canto, che costituisce la
base sottostante al linguaggio stesso, manifestandosi come un «un gioco significante
estraneo alla comunicazione, alla rappresentazione (dei sentimenti),
all’espressione». Il geno-canto lavora foneticamente sul corpo
delle singole lettere e trasporta le energie pulsionali e le loro disposizioni,
i tagli che imprimono nel corpo di chi parla, «è il volume della voce che canta
e che dice, lo spazio in cui i significati germinano dall’interno della lingua
e della sua materialità». Il geno-canto produce una scrittura
cantata con la voce, un’enunciazione che si avvale della
prosodia e della fonetica, che governa gli accenti e le vibrazioni materiali
del suono che passa attraverso le cavità fonatorie. In questo senso concordiamo
con E. Pitozzi, secondo cui la partitura del Canto del Capro è
come una scrittura a voce alta di una lingua che proviene dal
corpo del capro e aggiungiamo noi, che la voce canta la forma delle
lettere. (E. Pitozzi, Il corpo, la scena, le tecnologie. Per
un’estetica dei processi d’integrazione, Tesi di Dottorato in
Studi teatrali e cinematografici, pp.190-91).
La voce umana di
Chiara Guidi scrive nello spazio, attraverso il canto, la lingua di un corpo
che non ha voce, ovvero la lingua del capro che è, nelle origini della
tragedia, la vittima sacrificale silente, l’animale sacro che veniva immolato
agli dei e del quale l’eroe tragico prendeva il posto, sacrificandosi nel
silenzio per “donare” alla sua comunità la parola con cui liberarsi dal volere
degli dei. Il nesso tra l’animale sacrificale e la lingua che ne annuncia il
canto si affida a un procedimento che graficamente ha l’aspetto di un gioco (il
cruciverba).
(Nel video di A.#02 AVIGNON, come pure nei programmi di sala dello stesso Episodio e nei menu dei DVD del Ciclo filmico, compare il diagramma del capro), linguisticamente quello del paradosso (la lingua che canta le lettere degli aminoacidi scelte dal capro), e, strutturalmente l’organizzazione rigorosa e di un codice qualsiasi (ogni lettera corrisponde una precisa organizzazione dell’apparato fonatorio, come in qualsiasi lingua). Il senso di quest’operazione consiste a nostro avviso nel richiamare l’animale in questa tragedia in una modalità paradossale che non sia né citazione né narrazione, ma assunzione di un’animalità pensata come puro abbandono alla sua vita biologica di essere vivente. Ci dice Agamben, in L’Aperto, che l’uomo post-storico si trova di fronte alla possibilità di scegliere tra il dominio della (sua) animalità attraverso la tecnica oppure consegnarsi all’abbandono in una zona di eccezione tra l’umano e l’animale, tentando una forma di riconciliazione con l’animalità, che è connaturata alla vita stessa. (Cfr. G. Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, Torino 2002). fondamenti del bios dell’animale diventano letteralmente scrittura vocale che supera la logica della tensione tra animale e umano: il corpo del capro viene messo in condizione di scrivere il suo canto in una modalità paradossale che scarta la mimesi e, nondimeno, il canto che ne deriva mantiene un legame espressivo tra il corpo vivente dell’animale e quello dell’essere umano.
(Nel video di A.#02 AVIGNON, come pure nei programmi di sala dello stesso Episodio e nei menu dei DVD del Ciclo filmico, compare il diagramma del capro), linguisticamente quello del paradosso (la lingua che canta le lettere degli aminoacidi scelte dal capro), e, strutturalmente l’organizzazione rigorosa e di un codice qualsiasi (ogni lettera corrisponde una precisa organizzazione dell’apparato fonatorio, come in qualsiasi lingua). Il senso di quest’operazione consiste a nostro avviso nel richiamare l’animale in questa tragedia in una modalità paradossale che non sia né citazione né narrazione, ma assunzione di un’animalità pensata come puro abbandono alla sua vita biologica di essere vivente. Ci dice Agamben, in L’Aperto, che l’uomo post-storico si trova di fronte alla possibilità di scegliere tra il dominio della (sua) animalità attraverso la tecnica oppure consegnarsi all’abbandono in una zona di eccezione tra l’umano e l’animale, tentando una forma di riconciliazione con l’animalità, che è connaturata alla vita stessa. (Cfr. G. Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, Torino 2002). fondamenti del bios dell’animale diventano letteralmente scrittura vocale che supera la logica della tensione tra animale e umano: il corpo del capro viene messo in condizione di scrivere il suo canto in una modalità paradossale che scarta la mimesi e, nondimeno, il canto che ne deriva mantiene un legame espressivo tra il corpo vivente dell’animale e quello dell’essere umano.
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