mercoledì 10 novembre 2021

LA SUPERSTRADA ELETTRONICA DI NAM JUNE PAIK

Scheda di Emanuele De Feo


 Electronic Superhighway L'opera è stata realizzata nel 1995 da Nam June Paik, (1932, Corea del Sud - 2006, Miami, USA) e successivamente donata allo Smithsonian American Art Museum/Videoscultura di Washington 4,57 x 12,2 m). 
«Contiene 51 canali e un feedback televisivo a circuito chiuso. I monitor sono 336. I lettori DVD sono 50. Il cablaggio ha richiesto 1143 metri di cavi elettrici. Inoltre, l’artista utilizzò 175 metri di neon colorati. La struttura fisica di sostegno è in legno e acciaio colorati. I suoni diffusi nell’ambiente fanno parte dell’installazione»
La rete delle autostrade americane 
CONTENUTO 
L’opera si propone come una grande installazione. Diversi monitor, disposti linearmente e geometricamente su una griglia immaginaria, trasmettono filmati e immagini della cultura americana, presentando lo stesso contenuto in gruppi da 4 o 8 schermi. I tubi al neon invece formano una mappa degli Stati Uniti d’America, delineando i confini con colori diversi, ognuno dei quali richiama l’identità culturale dei propri cittadini. La mappa riproduce la rete di autostrade americane degli anni Sessanta. I neon colorati e i monitor richiamano luoghi e motel a disposizione dei viaggiatori. Le immagini trasmesse dai monitor sono veloci e lampeggianti, simulando gli scorci visti dai finestrini delle auto in corsa. 
Il tema principale dell'opera è l’era della comunicazione totale. Tutto è connesso. Nam June Paik satura il tema dell'opera raggiungendo un vero e proprio sovraccarico di informazioni, dal puro estetismo dei neon colorati e della struttura geometrica, all'evidenziazione della cultura americana in piena crescita urbana e culturale. Per questo troviamo qui la sua principale tematica: così come l'America riusciva a collegare tanti Stati (culturalmente e geograficamente diversi tra loro) attraverso la realizzazione di una gigante super strada, Paik fece altrettanto, sfruttando gli elementi a disposizione per sviluppare una mappa elettronica che funzionasse come diorama multimediale.
Sono rintracciabili diversi sottotemi, come il fascino di Paik verso la Pop Art (facilmente riconoscibile nello stile), o la possibilità di fruizione dell'opera da lontano piuttosto che da vicino che aiuta a coglierne tutti i particolari. Altro microtema è l'esaltazione della cultura Americana che sempre più si faceva "spavalda" di una realtà forte e patriottica, dal cinema alla crescita urbana/industriale e alla sempre più proposizione come vetrina artistica. 

L'opera è una installazione multimediale che non prevede alcun intervento performativo. Nonostante non sia concepita nemmeno come opera interattiva, essa è capace di lasciarsi scoprire in più prospettive e stimola una fruizione frenetica e passiva di contenuti "stroboscopici" da parte dell'osservatore che può concepirne alcuni particolari solo muovendosi intorno all'installazione o prestando attenzione ai diversi elementi.
 Il racconto dell'opera è racchiuso soprattutto nei filmati mostrati dagli schermi e dalla geografia dei neon:
Seguendo visivamente la geografia si possono distinguere i confini evidenziati dai neon colorati e le postazioni di sosta indicate per i turisti, ma in realtà non richiede un metodo di lettura lineare. Riguardo le clip proiettate nei monitor, esse sono intrinsecamente racconti lineari poiché, alcune di esse, riproducono in loop alcuni estratti cinematografici della cultura americana. 
In realtà quindi, in riferimento al modello aristotelico (inizio-svolgimento-fine) si può dire che l'opera rompa questo schema affidandosi ad una scelta di lettura prettamente soggettiva. Alternando una visione didattico/ludica della mappa ad una passiva dei contenuti multimediali (video e audio) consultabili nella loro interezza o singolarmente.

OGNI MEDIUM E LA SUA INTERAZIONE CON GLI ALTRI NELL’OPERA
Il tubo flessibile neon agisce in solitaria come principale fonte di cattura dell'attenzione senza interagire specificatamente con gli altri media. 
I monitor e le casse altoparlanti interagiscono in maniera immersiva: essi infatti non riproducono lo stesso contenuto, creando in simultanea un senso di spaesamento che aiuta ad abbandonare la razionalità critica dell'osservazione lasciandosi catturare dal turbinio di contenuti. Immagini e video contribuiscono a creare la realtà di cult americano attraverso un collage multimediale di estratti e icone degli Stati Uniti.
Il "sovraffolamento" dei monitor a gruppi enfatizza l'idea di sovraccarico delle immagini riprodotte e gettano le basi di una prima e nuova mass-medialità.
Non vi sono interventi diretti di post-processing sui filmati che Nam June Paik ha collezionato per la composizione né decisioni registiche poiché sono tutte clip di repertorio. La sua, infatti, si pone come una massiccia raccolta e disposizione di clip, scevra di manipolazione. Riguardo la disposizione delle clip e delle immagini, egli non ricorre allo split screen ma fa un buon uso del flickering come "flow of consciousness": le immagini scorrono a ritmo accelerato simulando l'effetto rapido e fuggente degli scorci visibili dalle auto in corsa. Nonostante le clip video non abbiano subito trattamento di post-produzione, sembrano accelerate nella riproduzione, risultato ottenibile tramite dispositivo analogico (lettore dvd, vhs).
Tra i media scelti possiamo distinguere diversi filmati della tv statunitense come un'intervista dell'ex presidente Jimmy Carter (in carica dal 1977-1981), estratti cinematografici dell'attore John Wayne, filmati di repertorio dell'Empire State Building e di Abramo Lincoln.
Anche dal punto di vista cromatico, Paik compie una scelta particolare: infatti i media sono estratti da epoche distanti componendosi di filmati in bianco e nero, seppiati, prime colorazioni (avvento della Technicolor), percorrendo cronologicamente l'evoluzione e la "nascita" del colore nel medium. Altrettanto importante, quasi centrale, la presenza del lungo e luminoso tubo led che illumina l'intera struttura sfruttando l'intera tavolozza a disposizione dell'RGB.
Grazie a questa impostazione l'opera non ha bisogno di illuminazione o faretti esterni per essere ammirata, poiché riesce a brillare di luce propria e, anzi, fa di questo la sua forza, lasciandosi godere in maniera più immersiva se esposta in ambiente buio.

L'audio usato in background è ottenuto grazie agli altoparlanti/speakers inseriti fra i monitor. Nam June Paik ha scelto di affiancare all'opera la traccia audio del
Mago di Oz (The Wizard of Oz – 1939). Di questo film sono presenti anche alcuni stralci fra le clip video, ma l'accostamento di tale suono non è sincronizzato poiché volto a creare un'atmosfera che funga da esperienza narrativa. Entriamo ancora di più nel dettaglio:
Il Mago di Oz (tratto dall'omonimo romanzo di L. Frank Baum) uscì nelle sale alla fine degli anni '30, e raccontava di una ragazzina del Kansas, di famiglia contadina, che finisce col ritrovarsi in un modo colorato, luminoso, di natura fiabesca.
Questo film (con protagonista Judy Garland) fu simbolo del populismo e del progressismo degli Stati Uniti, mostrando un povero e spento mondo monocromatico che veniva persuaso dalla nuova e sfarzosa realtà dell'evoluzione, ipercromatica e felice. Questo è lo stesso pensiero che l'artista vuole includere nell'opera, nello stesso modo in cui accosta la nascita del Technicolor: l'America è in piena evoluzione, si sta colorando, si sta evolvendo e si illumina al mondo come "La Nuova Opportunità" per immigrati, artisti, viaggiatori, lavoratori e sognatori.

 FORMA MULTIMEDIA
Segue una mappa schematica dell'oggetto multimediale considerando i diversi nodi tra diversi media. 
SPAZIO - L'opera non cerca rapporto con lo spazio circostante poiché vive dei suoi circuiti e brilla di luce e colori propri, lasciandosi osservare nella sua interezza e nei suoi particolari. Il rapporto spaziale, date le dimensioni notevoli, può essere ritracciato nella necessità dell'opera di essere osservata a distanza diverse per riuscire ad osservarne la sua interezza o ogni suo più piccolo particolare.

TEMPO - In questo caso possiamo parlare di dimensione reiterata ed evenemenziale, poiché essa è una contemplazione (di influssi Pop Art) della cultura americana che funge da simulacro di un'era che fu e che ha gettato le basi della società moderna: nonostante essa rimanga identica nel suo fascino contemplativo grazie all'attualità dei temi proposti, rimane testimonianza degli anni '70/'80 in America e delle innovazioni che la contraddistinsero.

L'installazione non pretende uno sguardo attento se non per una lettura più scrupolosa. D'altra parte, una percezione distratta coglierebbe solo i colori sgargianti dei led o qualche immagine lampeggiante. La fruizione migliore si ottiene con l'osservazione critica e curiosa dell'opera da prospettive diverse (per apprezzarne la costruzione minuziosa) e da diverse lunghezze per decifrarne ogni sfumatura.
Electronic Superhighway non chiede di strizzare gli occhi per coglierne l'essenza, non necessità di sinossi prolisse per afferrarne i contenuti, si pone in tutta la sua luminosa e cromatica magnificenza, senza idolatrare l'icona occidentale, bensì elogiandone la crescita, specchio di un paese in pieno progresso. Il sovraccarico di informazioni che egli genera non crea confusione nel momento di osservazione, anzi, crea uno schema geometrico e preciso dentro il disordine della libertà artistica. Non c'è gerarchia tra gli elementi ma solo un equilibrio fra caos e ordine, fra still e stròbo, e rimane nostra la libertà di sceglierne la chiave di lettura.
Emanuele De Feo, novembre 2020




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